Alessio Paternesi
“Io non diventerò mai Giulio II, ma tu così non diventerai mai Michelangelo; dai, sbrigati’’ esclama con voce impaziente il vescovo seduto su un’antica e polverosa poltrona da cerimonia dal rivestimento damascato liso, il volto leggermente girato sul un lato per esporre il profilo un po’ pacioccone, pur tuttavia solenne. L’esortazione è rivolta a un ragazzo, a sua volta seduto a un vecchio tavolo curiale, che armeggiava con matita e colori su una tela, impegnato nell’impresa di ritrarre il prelato, rendendo l’autorevolezza che il personaggio meritava. “Tu pensa a diventare papa, così mi pagherai di più.A diventare un grande artista ci penso io” replica, impertinente, il ragazzo, senza distogliere nemmeno un istante lo sguardo dall’opera in cui è immerso con tutte le sue forze. Magrissimo e molto più alto di quanto la sua età suggerisse, con la testa coperta da una selva di capelli ricci, neri e arruffatissimi, continua imperterrito a comporre il ritratto, senza tener in alcun conto la sollecitazione del vescovo. Nella stanza, illuminata da due grandi finestroni, torna così il silenzio. E il dipinto, con i tempi imperscrutabili che l’arte richiede, prende forma e sostanza. Quel vescovo, impaziente nella sua infinita pazienza, è monsignor Roberto Massimiliani, guida della diocesi di Civita Castellana dal 21 giugno del 1948 al 19 giugno del 1975. Il ragazzino, impertinente, è Alessio Paternesi, che già allora, a soli 13 anni, esprime con ciò che i tempi consentivano, la sua vocazione artistica. Sono gli anni del primissimo Dopoguerra. Civita Castellana, cittadina nella quale Alessio era nato il 28 ottobre 1937, è ancora disseminata di macerie e avvolta, come gran parte d’Italia, da una pesante coltre di miseria, lutto, sporcizia e fame. L’impegno primario della gente, di quasi tutta la gente, è quello di procurarsi ciò con cui lenire la fame. Quando monsignor Massimiliani, alcune settimane prima, aveva scoperto che quel ragazzo, di tanto in tanto, s’intrufolava nell’archivio della Curia, allora disordinatissimo e semi abbandonato, per rubare vecchi volumi di carta di stracci, pieni di preghiere e di tarli, aveva ritenuto che lo facesse per rivenderla e, appunto, mangiare. Per la verità le motivazioni del ragazzo e dei suoi due o tre compagni d’avventura erano, per così dire, più profane: i soldi messi insieme con quei “piccoli furti” venivano utilizzati per… frequentare una casa d’appuntamento di Civita Castellana. La cui maitresse, visti i tempi e la penuria di clienti, sorvolava con disinvoltura sull’età dei clienti, purché avessero di che pagare le prestazioni. Oppure, il vescovo conosceva il vero scopo delle intrusioni nell’archivio, e potrebbe aver ritenuto che le ragioni del furto, finalizzato ad appagare l’ingorgo dei desideri di un adolescente, costituissero un ‘peccato’ meno grave del furto stesso. Così potrebbe aver sorvolato sul secondo “peccato”, limitandosi a risparmiargli il primo. Sta di fatto che alcuni giorni dopo monsignor Massimiliani trova il modo per avvicinare Alessio. E quando gli chiede chi fosse, lui risponde spavaldo “sono un grande artista”. Il vescovo non si scompone davanti alla perentoria affermazione e si limita a dirgli che non c’era alcuna ragione per rubare i libri. “Per guadagnare lavorerai per me, mi farai qualche ritratto, dipingerai qualche quadro e io ti ricompenserò” gli dice. Il ragazzo accetta con entusiasmo la proposta, che si rivelerà fondamentale per il suo futuro. Così, il vescovo di Civita Castellana diventa il primo e forse unico ‘mecenate’ di Alessio Paternesi. E fu anche il primo a intuire che era dotato dal ‘genio’ della pittura, ereditato in chissà quale meandro della sua stirpe. La madre era d’origine brasiliana, il padre, era del posto, ma da dove fosse giunto resta un mistero. Comunque, sparirà ben presto di scena, emigrando in Francia senza far più ritorno.

La formazione e i primi successi
A quattordici anni, Alessio Paternesi - con l’aiuto del solito vescovo - inizia a frequentare il Liceo Artistico di Roma. Tra i docenti ci sono nomi come Franchina, Guttuso, Gentilini, Fazzini. Conseguito il diploma, a 19 anni ottiene una cattedra di disegno industriale. Poi passa alle magistrali e vince anche un concorso per l’ insegnamento della storia dell’arte, ma per una serie di ragioni, l’assegnazione dell’incarico arriverà solo 18 anni dopo. Parallelamente all’insegnamento frequenta la facoltà di Architettura a Roma e, soprattutto, intensifica l’attività artistica. E nel 1959, a soli 22 anni arriva il primo vero riconoscimento della sua verve: viene infatti invitato a partecipare alla VII Quadriennale di Roma, allora una delle manifestazioni più significative dell’arte visiva italiana (sarà di nuovo invitato alla rassegna nel 1986, l’XI della serie) Entra così in un vortice che lo porterà ad esporre nei ‘luoghi sacri’ della pittura italiana e in giro per il mondo. E proprio mentre si trova al centro del vortice che sopraggiunge un’altra singolare vicenda nella vita di Alessio, che fa il paio con quella del vescovo Massimiliani. Nel 1967, un mercante americano acquista tutti i suoi quadri, circa cinquanta, esposti a Roma. Due anni dopo, nel febbraio del 1969, la ‘Sirena Art Gallery’ di New York organizza una sua personale con un catalogo a firma di Alberto Bevilacqua. Contemporaneamente, sempre a New York, prende parte a esposizioni collettive presso la Botler Gallery, la Rizzoli Art Gallery e la Second Exhibition of European Painters. Nello stesso anno vengono allestite altre sue personali a Carmel e a Los Angeles. I mercanti americani gli propongono contratti in esclusiva purché accetti di vivere negli Usa. Ma Alessio non accetta. “Non sarei riuscito a vivere in una civiltà già allora dominata dal consumismo qual è quella americana – dirà alcuni anni dopo in un’intervista –; oggi, purtroppo, la parte negativa di ciò che era già oltre trenta anni fa l’America è arrivata anche in Italia”.

In quegli anni Alessio abita in un caseggiato affatto confortevole, con le pareti abbrunite dal fumo delle stufe e dall’ incuria. Passa gran parte del tempo in un ampio campo incolto dietro casa, circondato da cinque fratelli e una sorella. Nelle stagioni propizie, insieme, cercano la cicoria o altre erbe commestibili nei prati. O raccolgono legna per la stufa. Quando si presenta l’opportunità Alessio svolge anche qualche lavoro: aiuta un fabbro e consegna le bombole del gas. La scuola è per tutti un obbligo quasi completamente disatteso. Tuttavia, nonostante conducesse una vita un po’ anarchica, che peraltro non abbandonerà mai del tutto, riesce a frequentare con ottimi risultati le elementari e le medie.



La formazione e i primi successi
 A quattordici anni, Alessio Paternesi - con l’aiuto del solito vescovo -  inizia a frequentare il Liceo Artistico di Roma. Tra i docenti ci sono nomi come Franchina, Guttuso, Gentilini, Fazzini. Conseguito il diploma, a 19 anni ottiene una cattedra di disegno industriale. Poi passa alle magistrali e vince anche un concorso per l’ insegnamento della storia dell’arte, ma per una serie di ragioni, l’assegnazione dell’incarico arriverà solo 18 anni dopo. Parallelamente all’insegnamento frequenta la facoltà di Architettura a Roma e, soprattutto, intensifica l’attività artistica. E nel 1959, a soli 22  anni arriva il primo vero riconoscimento della sua verve: viene infatti invitato a partecipare alla VII Quadriennale di Roma, allora una delle manifestazioni più significative dell’arte visiva italiana (sarà di nuovo invitato alla rassegna nel 1986, l’XI della serie) Entra così in un vortice che lo porterà ad esporre nei ‘luoghi sacri’ della pittura italiana e in giro per il mondo.  E proprio mentre si trova al centro  del vortice che sopraggiunge un’altra singolare vicenda nella vita di Alessio, che fa il paio con quella del vescovo Massimiliani. Nel 1967,   un mercante americano acquista tutti i suoi quadri, circa cinquanta, esposti a Roma. Due anni dopo, nel febbraio del 1969, la ‘Sirena Art Gallery’ di New York organizza una sua personale con un catalogo a firma di Alberto Bevilacqua. Contemporaneamente, sempre a New York, prende parte a esposizioni collettive presso la Botler Gallery, la Rizzoli Art Gallery e la Second Exhibition of European Painters. Nello stesso anno vengono allestite altre sue personali a Carmel e a Los Angeles. I mercanti americani gli propongono contratti in esclusiva purché accetti di vivere negli Usa.  Ma Alessio non accetta. “Non sarei riuscito a vivere in una civiltà già allora dominata dal consumismo  qual è quella americana – dirà alcuni anni dopo in un’intervista –; oggi, purtroppo, la parte negativa di ciò che era già oltre trenta anni fa l’America è arrivata anche in Italia”.

Gli incontri che segnano la vita.

“La vita, amico mio, è l’arte dell’incontro”. Queste illuminate e illuminanti parole di Vinicius de Moraes, sembrano coniate apposta per Alessio Paternesi. O meglio, per tutti coloro che, come lui, sono abili  alchimisti delle emozioni, giocolieri delle sensazioni, sapienti esploratori dei luoghi più reconditi dell’anima, laddove si nasconde la poesia. E la vita di Alessio è stata scandita da grandi incontri. Da quegli incontri che “devono” avvenire. Che per un certo tipo di persone sono un imprinting naturale. Non biologico, ma metafisico. E allora ecco l’amicizia con Renato Guttuso, Franco Zeffirelli, Rafael Alberti, Sebastin Matta, Maria Luisa Spaziani e molti altri. Guttuso, nel 1971, in una lettera di  presentazione della mostra di Alessio alla Galleria Zanini di Roma, scrive: “Le tue figure intrecciano tra loro un colloquio singolare, come sospeso, che ricorda le celebri figure dei sarcofagi etruschi. Ma il pensiero dell’Etruria ti è naturale e istintivo, essendo tu nativo di quelle terre, e non riguarda tanto l’iconografia quanto il senso di un mistero antico, entro il quale immetti un sentimento di oggi”. Maria Luisa Spaziani, compone una poesia intitolata Ad Alessio: “…ti credevi una zattera, sei una nave meravigliosa – ti credevi un ombrello, sei un bel cervo volante – ti credevi una pietra pesante, incapace di splendere – e sei argento, sei la vetta della piramide…”.  Il grande poeta spagnolo Rafael Alberti, ha con Alessio avuto un lungo e intenso sodalizio a cavallo degli ultimi anni Sessanta e i primi anni Settanta del Novecento, periodo in cui era esiliato a Roma, perseguitato dalla squadracce del Generalissimo Franco. L’intesa tra i due è sì culturale e creativa, ma anche fatta di bisbocce, avventure licenziose. Giorni e notti passati a girovagare senza meta, seguendo come una stella cometa le insegne delle osterie o campanelli di case di donne. Nel 1975, prima di rientrare in Spagna, a seguito della morte, tardiva, di Franco, Rafael Alberti, ammirando alcuni quadri appesi nella casa romana di Alessio, in via del Babuino, scrive: “La tua pittura ha l’odore della terra – sa di creta e di fango, di rugiada all’alba – d’ocre dorate, rossi cupi e silenzi – sereni che riposano – già in un cavallo, un gatto, una ragazza nuda”. In una delle tante scorribande a Viterbo, Alessio fa visitare più volte la città ad Alberti. Il poeta e pittore resta colpito ed affascinato, tanto che, proprio a casa di Paternesi dedica a Viterbo una poesia-quadro. Compone cioè una poesia tracciando con il pennello ogni lettera con colori diversi. “Todo està vivo aquì. Cantan las pietras – erguidas en las torres y palacios. - Voces de lo que fué se escuchan todavìa - por las calles, las plazas y las fuentes. - Ciudad del nombre extraño y los colores graves, - de los potentes, vigorosos hombres, - aùn suenas en el viento - como un verso de Dante - y se oye entre el clamor de las espadas, - de las cruces, la sangre y las campanas, - aquél grito del pueblo contra la tiranìa. - La libertad abierta entre las manos, - lejano de la patria,- un poeta de España te saluda”. Ed è proprio in compagnia di Rafael Alberti, impegnati in uno dei soliti giri perdigiorno (e perdinotte) che Alessio conosce il grande pittore surrealista cileno Sebastin Matta, che da alcuni anni viveva a Tarquinia. Quel giorno, il Comune della cittadina costiera conferiva a Matta la cittadinanza onoraria. I due vengono presentati, si stringono la mano e scocca la scintilla. Fu amore a prima vista. Duraturo e solido, tanto che la famiglia Matta, molti anni più tardi, assegnerà proprio a Paternesi il compito di curare i funerali pubblici del grande maestro. “La pittura di Matta e la mia – dirà Alessio in un’intervista rilasciata a Carlo Galeotti – non hanno nulla in comune. Ma è stato proprio lui ad insegnarmi a leggere in me stesso”. Matta, da parte sua, definiva Paternesi “L’ultimo grande metafisico italiano”.

I grandi cicli pittorici e il ritorno alla scultura

A metà degli anni Novanta del Novecento, Alessio Paternesi  s’immerge  in un grande ciclo di quadri ispirati alla Divina Commedia E lo fa non dipingendo, ma affrescando, con una tecnica inventata da egli stesso, dei grandi fogli di carta. E decide altresì di non soffermarsi sui vari episodi così come descritti da Dante, ma di cogliere in modo mirabile l’attimo che li precede o che li segue. E così che le “peccatrici” non s’immergono nel Bulicame, ma sono raffigurate mentre escono dall’acqua. Oppure, Guido di Monfort non è colto nell’atto di uccidere Enrico di Cornovaglia “in grembo a Dio”, mentre riceve la Comunione nella chiesa del Gesù, a Viterbo, ma mentre in sella al cavallo, lo afferra per i capelli e lo trascina sul selciato. Matta, al quale Alessio sottopone e prime opere del ciclo, resta ammirato ed esclama: “Questa non è la Divina Commedia, è Indovina la Commedia”.
E da quel giorno, il ciclo, presentato per la prima volta al pubblico dalla SDA - Società Dante Alighieri - al Castello Estense di Ferrara, si chiama “Indovina la Commedia”. Lo stesso Matta, inoltre, volle per la sua collezione privata i primi sei quadri della serie, che esporrà a Capalbio in una mostra collettiva organizzata da Philippe D’Averio. Inprecedenza, a Roma, Paternesi, nella casa – studio di via del Babuino, aveva realizzato i suoi cicli pittori più celebri:  “I giardini Incantati” e “Dietro le quinte”, quest’ultimo dedicato alla moglie Danka, bella e famosa top model. “Volevo realizzare una serie di quadri a sfondo ecologico – spiega in un’altra intervista sui famosi giardini – ma anziché fare una denuncia sugli attentati all’ambiente ho usato l’esaltazione della bellezza. Ho cioè preferito raffigurare una sorta di Eden Parallelo della cui esistenza non ci accorgiamo. Ho tentato di spiegare cosa perdiamo devastando la natura e l’ambiente”. “Dietro le quinte”, invece è dedicato al mondo della moda, colto, appunto, dietro le quinte. Negli attimi convulsi che precedono l’uscita delle modelle sulla passerella. Lo sfondo rosso pompeiano che domina la serie, conferisce alle opere un sapore arcaico, che ricorda come la moda, il gusto, la ricerca dell’eleganza sono antichissimi, legati alla stessa natura umana. Alla fine degli anni Ottanta, Alessio decide di tornare a Viterbo, ritirandosi in una sorta di eremo immerso nel verde dei Cimini, circondato da un numero imprecisato di gatti e di cani.  Il grande spazio a disposizione gli permette di riprendere l’altra sua passione: la scultura. Realizza subito una grande opera intitolata “Omaggio a Piero”, dedicata a Piero della Francesca in occasione dei cinquecento anni dalla nascita. Poi plasma “Risveglio d’Europa”, che esporrà nel Parlamento Europeo di Strasburgo. E, conosciuto il presidente del Sodalizio dei Facchini di Santa Rosa, Nello Celestini, inizia a progettare il grande monumento dedicato ai protagonisti del Trasporto della Macchina di Santa Rosa, i Facchini appunto, che da alcuni anni svetta dai suoi 15 metri d’altezza in piazza della Repubblica a Viterbo. Intanto, continua a esporre i suoi quadri. Notevole è la personale allestita a Roma, presso i saloni del Vittoriano, in contemporanea con un’altra grande mostra dedicata a René Magritte. Poi, arriva la lupa capitolina in bronzo a grandezza naturale, collocata a Friburgo, in occasione dell’apertura di una via dedicata alla Città Eterna. Infine c’è la commissione, da parte del Campidoglio, del bassorilievo dedicato alla “Liberazione di Roma”. Per realizzare l’opera, l’unica di un artista contemporaneo allestita a piazza Venezia  a Roma, proprio di fronte all’Altare della Patria, Alessio s’ispira ad una delle scene finali del film “Roma città aperta” di Roberto Rossellini. Alcuni soldati americani vengono accolti da donne e bambini festanti. Uno dei personaggi ha le spalle avvolte dal tricolore, mentre un elmetto, simbolo della guerra, rotola sul selciato, ignorato da tutti. E’ l’incubo che passa.  Intanto, in attesa di inaugurata una nuova, grande opera in bronzo e pietra a Bagnoregio (dedicata a Bonaventura Tecchi) e dopo la grande antologica viterbese  che la sua citta’ ha dedicato al maestro, nella meravigliosa cornice di Palazzo dei Papi, Alessio Paternesi, che nel frattempo è diventato nonno di Paola,  compie settanta anni. Un traguardo importante, al quale si accinge, con la freschezza di sempre. Passa ore e ore nel suo studio. Progetta, dipinge scolpisce. Un solo cruccio lo affligge. La cronica incapacità di Viterbo e dell’intera Tuscia di compiere un vero salto di qualità come terra d’arte e cultura. “Viterbo mi ha dato tutto: ispirazione artistica, colori, odori, atmosfere.La Tuscia si ritrova nella mia pittura. Insomma, c’è feeling.   Il problema di Viterbo – oggi -  è quello di volare in alto. Dal punto di vista culturale è il secondo giacimento dopo Roma, ma non è valorizzato. Il rischio è che il viterbese si trasformi in un dormitorio di Roma, in quanto è mancata da parte degli enti locali la capacità di realizzare un progetto sociale  basato sulla cultura, sull’arte e sull’ambiente.  Questa terra si è dimenticata di personalità come Tecchi, pittori come Cesetti, scultori come Nagni, poeti come Cardarelli. Il territorio partorisce cultura ma non la sa difendere e valorizzare”. Questo brano di un’intervista rilasciata da Alessio Paternesi, sembra di stringente attualità. Invece è del 1994…

Beniamino Mechelli